venerdì 23 marzo 2012

Intervista Fernanda Sacco Al Giornale "Gli Altri"

Lucida, decisa, testarda. Fernanda Sacco è l’ultima rimasta, in Italia, della famiglia di Nick, l’anarchico italiano condannato a morte e ucciso dallo Stato del Massachussets nella notte tra 22 e 23 agosto 1927. Un’esecuzione ben più lunga dell’elettricità scaricata dalla sedia del penitenziario di Charlestown; un’esecuzione durata 7 anni, consumata all’interno di un processo che batté il martello anche sulla corruttela della giustizia statunitense, e che lacerò fisicamente due uomini ingiustamente accusati di essere rapinatori ed assassini (con Nicola Sacco, ovviamente, Bartolomeo Vanzetti). E che, al contrario, erano semplicemente anarchici. E Italiani. Fernanda non ha mai conosciuto lo zio di cui porta il nome (perché il vero nome dell’anarchico foggiano era Ferdinando), ma non si arrende allo sfilacciamento della sua memoria, della sua etica rigorosa, del suo sacrificio ideale e non cercato. Nel 2007, in occasione dell’80mo anniversario della morte di Nick, con l’ex sindaco di Torremaggiore, Matteo Marolla, ha messo in piedi l’Associazione Sacco e Vanzetti, che annualmente cura l’ospitalità di scuole e gruppi che vogliono mettersi sulle tracce dei due anarchici.

Fernanda Sacco, Nicola Sacco e Torremaggiore. Quali i tuoi ricordi?
Dello zio ho ricordi indiretti. Sono nata dopo la sua morte, per altro avvenuta dopo anni di emigrazione negli Stati Uniti. Zio Ferdinando andò via da Torremaggiore neppure diciottenne. Era il 1908 e, sebbene in queste terre la povertà fosse tanta e l’arretratezza ancor più marcata, la sua famiglia di provenienza era tutto sommato in discrete condizioni economiche. Era infatti, quella dei nonni, una casa di produttori agricoli, con buon radicamento nel settore dell’olio extravergine d’oliva e del vino. Malgrado ciò, fu lui a decidere di tentare l’America, di migrare come un uccellino fragile verso quella Grande Nazione che, vista da qui, pareva un miraggio di ricchezza ed arricchimento. E dove, invece, piangerà amaramente, fino alla morte. Io mi glorio di portare il suo nome. Lo volle mio papà Sabino, fratello di Ferdinando.

Le sue speranze andarono deluse…
Zio Ferdinando era emigrato in America per lavorare. La verità gli si schiuse presto in faccia come un fiore appassito. L’America non era bella, né scintillante, era foriera, anzi di povertà e poveri. I cotillon erano riservati a pochissimi privilegiati. E questi privilegiati non erano mai stranieri. Per loro c’era il ghetto, l’emarginazione, il lavoro senza condizioni e senza protezioni. Lo zio raccontava le storture evidentemente razziste, delle derive anti italiane, quando si affiggevano cartelli di proibizione di fittare casa ai nostri compatrioti. Nel 1916, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fu chiamato alle armi. Come molti anarchici (e come Bartolomeo Vanzetti, che nel frattempo aveva preso a frequentare), scelse la diserzione e scappò in Messico. A ritorno nel Massachussets, di fatto, firmò una prima parte della sua condanna a morte, essendo stato inserito nella lista dei sovversivi. Lista, in cui figurava anche Andrea Salsedo, volato da una finestra del commissariato di New York il 3 maggio 1920.

Il processo fu lungo, l’esecuzione ingenerò un vespaio di polemiche. Ma in Italia, fu silenziato tutto.
La nostra famiglia era ed è una famiglia di convinta ideologia socialista. Di quel socialismo puro che ha fatto di Matteotti, per esempio, uno dei primi bersagli dello squadrismo. Quando l’urna con le ceneri di zio Ferdinando, mischiate con quelle di Vanzetti, giunse a Torremaggiore il 15 ottobre del 1927, i gerarchi locali disposero misure restrittive eccezionali [le ceneri arrivarono in convoglio ferroviario a San Severo, prima di essere traslate su un carro e ricondotte a Torremaggiore. Quello stesso giorno arrivarono in paese, per monitorare la situazione, due camion pieni di poliziotti. Si racconta, nella cronaca tramandata e nei ricordi di qualche anziano, che il silenzio in paese era ai limiti dell’irrealtà, ndR]. Ordinarono che i parenti non fossero presenti alle esequie. Al camposanto poté accedere solo papà, che, come detto, di nome faceva Sabino ed era fratello di Nicola, scortato da un manipolo di poliziotti. Per zio Nicola, il fascismo non voleva la damnatio memoriae. Peggio, mirava alla sua rimozione mediante silenzio ed anonimato. Basti pensare che, sulla sua modesta tomba, ci fu impedito di scriverne il nome. Questo, secondo i loro calcoli, avrebbe scoraggiato le celebrazioni politiche, ben sapendo che la partecipazione del paese al dolore della famiglia non era semplicemente affettiva, ma anche politica. E infatti, per l’intero Ventennio, ogni anno, per in occasione della ricorrenza del primo maggio, qualcuno gabbava il Regime e, nottetempo, deponeva sulla tomba di zio Nicola un mazzo di fiori rossi.

Una memoria controversa…
Una non memoria, direi. Zio Nicola era un uomo buono. Per lui l’anarchia non erano le bombe, come qualcuno volle far credere. Non era un rapinatore e tantomeno un assassino. Zio Nicola era un giusto, credeva nell’uguaglianza sentendola nel profondo. La prevaricazione dell’uomo sull’uomo: ecco che cosa odiava. Dunque, lo sfruttamento, i diritti negati, la guerra. Di questo portato, oggi, resta poco o nulla. Per oltre vent’anni, e questo ben dopo il fascismo, ho fatto la spola tra le varie amministrazioni di Torremaggiore. Volevo un posticino nel camposanto, un metro, 50 centimetri, per dare allo zio quel riconoscimento che non gli è spettato in vita. Soltanto nel 1998, l’allora sindaco Matteo Marolla accolse la mia proposta. Il Comune di Torremaggiore riconobbe il suo figlio lontano. Il 14 novembre inaugurammo un monumento che, oggi, è all’ingresso del cimitero, con su impresse le parole con cui, nel 1977, Michael Dukakis, governatore del Massachussets, riabilitava la memoria di Sacco e Vanzetti.

Fernanda perché, oggi, Sacco dovrebbe essere un esempio?
Guardo alle nuove generazioni. Con la scusa della crisi, si sta facendo strage di giovani. La ribellione di zio Ferdinando, di Nick, di Nicola Sacco, può e deve diventare la ribellione dei giovani. Come lui, loro devono ritrovare il senso della collettività, l’appartenenza comune, la forza della morale e dell’ideale. Uscire dalla logica imposta e coercitiva della competizione a tutti i costi. I potenti hanno fatto credere loro nella cannibalizzazione l’un dell’altro come nell’unica forma possibile di interazione sociale, di riuscita. Hanno dipinto un mondo a tinte fosche, cupo, in cui la sodomizzazione della partecipazione collettiva sia la strada che porta a diventare uomini. Ecco i ragazzi prendano in mano i pennelli e ridipingano questo scenario a modo loro.

Hai visitato i luoghi che furono di zio Nick?
Si. Nel 2006, dopo diverso tempo e tante remore vinte, sono partita per gli Stati Uniti. Le emozioni sono state fortissime: dolore lancinante, delusione, rabbia. Tanti sentimenti contrapposti l’uno all’altro. Quel viaggio mi condusse all’interno dell’aula del Tribunale di Dedham dove furono alla sbarra zio Ferdinando e Bartolomeo Vanzetti. Sedetti nella posizione che fu di Nick; negli occhi le immagini che dovettero essere le sue immagini; la prospettiva che dovette essere la sua prospettiva. Infine, anche se per il breve volgere di qualche attimo, stetti sulla sedia del giudice corrotto Webster Thayer. Sono stata male per due giorni, le parole si spezzavano in gola, avevo un groppo grande così. Vivendo sui passi di zio Nick, percorrendo le sue vie, impattando contro Bridgewater, contro le strade dove s’era consumata la rapina di cui lui e Bart sono stati accusati, mi sono sentita come in una centrifuga delle emozioni, sballottata dappertutto.

Ora, come tu stessa hai detto, Nicola Sacco ha un suo monumento (la base, a forma della prua di una nave, con bassorilievi – sulla facciata – del castello di Torremaggiore e – sul retro – della statua della Libertà, sorregge un obelisco nero rettangolare con su impresse le parole di Dukakis), un suo riconoscimento fisico. Per deporre fiori sulla tomba non occorre più scavalcare di nascosto il muro di cinta. La sua storia circola per l’Italia e per il mondo come un esempio fulgido d’impegno. A Torremaggiore, nel paese dove Nick è nato e da cui è partito, cos’è rimasto?
(ride amaramente) E’ rimasto il monumento. Qui, proprio qui, dal punto in cui è iniziato il cammino dello zio verso la fine, c’è un ricordo vacuo e distratto. A lungo dimenticato dalla politica, snobbato dalle scuole e con pochi appigli nella società civile. Soltanto poche volte succede di trovare un fiore o un lumino dove riposano le sue ceneri; la sua casa natale, fuori da cui è stata, qualche anno fa, affissa anche una targa, è vuota ed in vendita. Nessuno ha mai pensato di acquistarla, men che meno le amministrazioni. La memoria di Sacco nel paese di Sacco è polverizzata. Ogni anno, con l’associazione, proviamo a rinverdirla in occasione del “Sacco e Vanzetti Memorial Day”. Mi rendo conto che non è molto, ma è uno strumento non tanto per consumare la celebrazione di un evento, quanto più per perpetuare ciò supera la temporaneità della vita terrena per imprimersi nell’eternità: le idee, l’insegnamento.

Piero Ferrante
Gli Altri
23 Marzo 2012
 
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